Il più grande archivio italiano di analisi statistiche sul tennis professionistico. Parte di Tennis Abstract

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I 128 del tennis — #38, Andre Agassi

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Pubblicato il 4 ottobre 2022 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati

A inizio anno, Jeff Sackmann si è imbarcato in un immenso progetto di elaborazione di una classifica dei 128 giocatori e giocatrici più forti di tutti i tempi, ponendosi l’obiettivo di terminare a dicembre 2022. Con una media di più di 2000 parole per singolo profilo, si tratta di una vera e propria enciclopedia di chi è chi nel tennis, dalla sua nascita a oggi. Per limiti di tempo e più evidenti limiti di talento, settesei.it propone una selezione delle figure maggiormente rappresentative per vicinanza d’epoca e notorietà, n.d.t.

Andre Agassi [USA]
Data di nascita: 29 aprile 1970
Carriera: 1987-2006
Gioco: destro (rovescio a due mani)
Massima classifica ATP: 1 (10 aprile 1995)
Massima valutazione Elo: 2282 (primo nel 1995)
Slam in singolo: 8
Titoli ATP in singolo: 60

// Ci sono due istantanee di Andre Agassi che rimarranno scolpite fintanto che qualcuno si appassionerà al tennis. La prima è quella dell’enfant terrible della fine degli anni ’80, con i pantaloncini corti di jeans e i capelli platino appuntiti, lo spacca palline che di fronte a una macchina fotografica Canon proclama che l’immagine è tutto. La seconda è quella di un viso aperto e di una testa pelata di un più che trentenne che, al momento del ritiro nel 2006, era diventato il giocatore più amato degli Stati Uniti. Quella è anche la copertina della sua biografia e un ricordo che chiunque ha seguito gli US Open nel 2005 e 2006 si porterà dietro.

Sono due personalità che si somigliano a malapena, ed è impossibile affrontare una retrospettiva della carriera di Agassi senza rimanere ammaliati dal suo costante reinventarsi. In vent’anni, è passato da idolo adolescenziale ad adolescente esaurito, da salvatore della patria a talento buttato via, da persona che ha odiato il tennis a ragazzino che ritorna sulla scena, da burlone a decano. Il suo gioco è stato meno schizofrenico, ma ha comunque subìto molti cambiamenti. Si è presentato sul circuito con un dritto che avrebbe potuto dividere un capello in due e che doveva essere così perfetto da nascondere le carenze sul rovescio, tanto da diventare un marchio di fabbrica. La concentrazione a corrente alternata aveva lasciato spazio alla potenza tattica sotto l’egida di Brad Gilbert. Aveva abbandonato un’alimentazione da fast food e un’attitudine apatica all’allenamento a favore del regime imposto dal preparatore atletico Gil Reyes, fino a essere il più in forma di tutti dopo che molti dei suo coetanei si erano ritirati.

Come ha fatto il ragazzino di Las Vegas scandalosamente dotato di talento a passare da modello di capelli a modello di vita? In molti parlano di una partita — la finale del Roland Garros 1999 — come vero momento di svolta, ma la saga è stata costellata più da montagne russe di quanto non sia riconducibile a una sola giusta direzione. Nonostante gli otto Slam vinti, è il percorso così tortuoso a rendere l’epopea di Agassi unica.

Ribelle

Il rapporto del tennis con i suoi ragazzi terribili è sempre stato complicato: dai giocatori ci si aspetta un comportamento immacolato come il completo bianco d’obbligo a Wimbledon. Con un professionismo che cresceva a misura globale però e un numero di giocatori milionari in costante aumento, era diventato chiaro che i ribelli aiutassero a vendere i biglietti tanto quanto a vendere giornali. Non appena ebbe inizio l’era Open, alcuni commentatori nominarono immediatamente personaggi dalla parolaccia facile come Ilie Nastase a traghettatori dello sport. Ogni volta che lui, Jimmy Connors o John McEnroe andavano oltre i confini del decoro, si raggiungevano nuove vette di seguito televisivo. A metà degli anni ’80, Connors e McEnroe erano sulla via del declino. Arthur Ashe aveva predetto nel 1985 che nel giro di un paio di anni gli americani al vertice sarebbero crollati in caduta libera. Il punto della questione era che tifosi e giornalisti erano pronti ad accogliere Agassi e i suoi capelli alla ‘Cyndi Lauper dopo una lotta con le fettuccine’, nella celebre frase di Curry Kirkpatrick, all’arrivo sul circuito. Tolto lo shock del primo impatto, il ragazzino non era poi così male. Alcuni lo consideravano un giocatore d’altri tempi, rilassato, e veloce ad applaudire i colpi migliori dell’avversario.

Non c’era alcun dubbio sul talento di Agassi. Nel 1987 a Stratton Mountain, appena diciassettenne aveva vinto a sorpresa contro Pat Cash, tra i primi 10, e strappato un set al numero uno Ivan Lendl. L’anno successivo il torneo era suo, uno di sei trionfi nella prima stagione completa sul circuito maggiore. Jimmi Arias, egli stesso noto come un obice del dritto, aveva detto che Agassi colpiva la palla più forte di chiunque altro. La capacità di anticipare il colpo era ancora più incredibile: un collega aveva definito la coordinazione occhio-mano come ‘rivoltante’. Una delle obiezioni iniziali alla dinamicità di Agassi è anche tra quelle che più sono invecchiate male, cioè di un giocatore che ferisce da fondo ma senza il minimo interesse per un tennis a tutto campo. Ion Tiriac, che al tempo allenava Boris Becker, aveva detto: “se un giocatore colpisce ogni volta con il massimo della forza, le partite si trasformano in una polveriera e il tennis perde di bellezza intrinseca. Agassi ha un gioco limitato che nulla condivide con la finezza”. Poi continuando: “potrebbe rivoluzionare il gioco, ma spero che non accada”.

A suon di vittorie era arrivato anche l’eccesso di sfrontatezza tipico adolescenziale. Nella partita di Coppa Davis del 1988 contro Martin Jaite a Buenos Aires, era andato sotto 0-40 in un game di risposta e, lanciandosi in una bravata, aveva preso il servizio successivo al volo pensando innocuamente di far divertire. Ma Jaite e il resto dei presenti, soprattutto il pubblico argentino, non avevano gradito. Agassi si era scusato — e ben prima dell’era delle conferenze stampa impersonali — probabilmente con un moto di sentita sincerità. Gli episodi che facevano discutere però continuavano ad aumentare. Alle Finali WTC a Dallas nel marzo successivo, si era ritirato contro McEnroe pur non mostrando segni di infortunio. Poi chi decideva il suo calendario gli aveva fatto saltare anche Wimbledon, perché alla fine era solo un torneo come un altro. Quando applaudiva i colpi degli avversari, sempre più spesso la percezione era che li stesse prendendo in giro. Ancor peggio, i risultati scarseggiavano ed era più difficile giustificare atteggiamenti impropri di fronte al miglior rendimento dei colleghi. Nel 1989 aveva perso contro Jim Courier una battaglia al terzo turno del Roland Garros tra prodotti della scuola Nick Bollettieri. Quel torneo era poi stato vinto da Michael Chang, un anno più giovane di Agassi. In una sfida di Coppa Davis contro la Germania Ovest, Agassi aveva perso entrambi i singolari: se in uno aveva lottato fino al quinto contro Becker, nell’altro era stato demolito da Carl Uwe Steeb.

In trasformazione

Strano a dirsi, ma la trasformazione di Agassi era già iniziata. Si era rivolto alla religione, portando con sé una Bibbia e dandosi una regolata con le imprecazioni. Jim Loehr, psicologo dello sport e collaboratore della USTA, riteneva l’improvviso cambio di comportamento di Agassi un passaggio senza precedenti. Non bastava però a convincere lo spogliatoio. A seguito del ritiro a metà di una partita ininfluente in Coppa Davis contro l’Australia, Darren Cahill aveva detto: “Andre è un ottimo giocatore, ma quello che esce dalla sua bocca ha poca importanza, non lo vorrei in squadra con noi”. Anche Ivan Lendl, che aveva battuto Agassi nei primi sei scontri diretti, manteneva scetticismo: “mi spiace per chiunque lo tifi, i ragazzi lo vedono come un ribelle, con i suoi orecchini i capelli lunghi e la barba incolta”.

Compiuti 22 anni, Agassi non aveva ancora vinto uno Slam, mentre Chang, Courier e Pete Sampras non solo ci erano già arrivati, ma a volte anche a sue spese. Pur con tre finali Slam dagli US Open 1990 al Roland Garros 1991, la reputazione da molta apparenza e poca sostanza tendeva a far pensare che avesse solo un gioco inaffidabile e non in grado di sostenere la pressione a cui si è sottoposti per vincere uno Slam. Eppure, chi ricercava un’evoluzione finiva sempre per trovarla. A maggio del 1992, Sally Jenkins ne parlava in questi termini su Sports Illustrated: “il comportamento, da quello di bambino rumoroso e indiavolato, si è placato in una incertezza trasparente, ed è maturato in un gentiluomo dal pensiero profondo, che ti apre candidamente la porta, generoso con gli altri e che ha posto un freno ad almeno alcuni eccessi nella vita”. Agassi riconosceva di essere trainato da motivazioni sbagliate: “la maggior parte dei giocatori deve lavorare durissimo e vincere un po’ di partite di quelle che contano, così poi arrivano soldi e popolarità. Per me è stato l’esatto opposto”. Era il più sponsorizzato del tennis, con gettoni presenza da 300 mila dollari, all’epoca soldi pesanti. Dal solo produttore di racchette guadagnava 20 milioni di dollari.

Era uscito dai primi 10 all’inizio del 1992, a fronte di risultati poco incoraggianti, salvo per una semifinale al Roland Garros in cui però aveva perso di nuovo da Courier. Non era più il salvatore del tennis americano, e alcuni opinionisti stavano per farlo fuori del tutto. Edwin Pope del Miami Herald aveva scritto: “dovesse mai vincere Wimbledon, mi mangerò la maglietta. Non solo non ha alcuna possibilità, ma se non si rimette a posto subito, potrebbe uscire dal tennis in due o tre anni”.

Che buon vino si beve con una maglietta?

Agassi aveva partecipato a Wimbledon solo due volte, prendendo ai quarti di finale contro David Wheaton l’anno precedente. Nel 1992, grazie a un po’ di fortuna, il tabellone era favorevole. Questa volta c’era Becker ai quarti, avversario certamente tosto ma che rispettava e che lo spronava a dare il meglio, aveva vinto infatti al quinto set. In semifinale, aveva interrotto la sorprendente cavalcata di un trentatreenne McEnroe, per poi raggiungere la gloria in finale al quinto set contro Goran Ivanisevic. McEnroe si era lamentato dei passanti di Agassi e Ivanisevic ci aveva scambiato poche parole cordiali alla stretta di mano. Il campione di Wimbledon nuovo di zecca e i suoi capelli erano ancora una presenza fissa nelle pubblicità televisive, ma la maturazione in giocatore — ed essere umano — più pieno sembrava avvenuta…o forse no. Aveva vinto a Toronto, finalmente superando in finale Lendl, ma per il resto della stagione aveva ottenuto solo un’altra vittoria contro uno dei primi 10, e di nuovo Courier lo aveva battuto agli US Open. Il 1993 era un ritorno al passato. A causa di una bronchite non aveva giocato gli Australian Open e lo stesso a Parigi per una tendinite al polso. Fuori dai primi 10 all’avvio di Wimbledon, un quarto di finale, anche senza allenamento, non era abbastanza per difendere il titolo. E la situazione era così seria che il suo allenatore, Bollettieri, lo aveva licenziato!

Quando raggiunge il fondo, cosa deve fare una persona se non reinventarsi? Nel 1994 Agassi si era presentato sul circuito con un’alimentazione sana, un fisico atletico e una nuova mentalità. “Di che mentalità si tratta” si chiedeva Courier, “è la nuova mentalità, oppure è la nuova mentalità”? Quale fosse, era nuova..più o meno. Fuori dai primi 30, un Agassi in forma era arrivato in finale a Miami, sorprendendo Stefan Edberg ma perdendo poi da Sampras. La stagione era proseguita con mediocrità fino agli US Open, vinti con un quinto set contro Chang, una partita a senso unico contro Thomas Muster e la finale contro Michael Stich. Il nuovo allenatore e stratega dell’acume tattico di Agassi, Brad Gilbert, aveva predetto anche la vittoria agli Australian Open 1995. E così fu, con l’unica vittoria contro Sampras in una finale Slam. Dopo averlo battuto di nuovo a Miami qualche mese più tardi, si era preso il numero 1 del mondo, tenuto quasi fino alla fine della stagione con 26 vittorie consecutive sul cemento nordamericano, la striscia interrotta proprio da Sampras nella finale degli US Open. Sul momento, quella partita poteva sembrare solo un incidente di percorso nella migliore stagione di un giocatore che ormai veniva considerato un “campione vero”. Aveva già perso contro Sampras e, pur con un talento più naturale, il suo gioco esaltava il rendimento del più continuo rivale. Così da quella sconfitta era partita una spirale discendente. Nel 1996 Agassi era riuscito, se possibile, a portare la sua passata discontinuità su nuovi livelli: aveva difeso il titolo a Miami, per poi perdere al secondo turno a Parigi e al primo a Wimbledon. Aveva vinto la medaglia d’oro alle olimpiadi di Atlanta e il torneo a Cincinnati, per poi farsi squalificare a Indianapolis insultando l’arbitro. L’anno era terminato con quattro sconfitte di fila e a malapena una posizione nei primi 10. Peggio era stato il 1997, con una classifica fuori dai primi 100. Sul cemento americano, dove aveva sempre dominato, era riuscito a perdere contro giocatori come Scott Draper, Justin Gimelstob e Javier Sanchez. Aveva iniziato a usare droghe pesanti, risultando positivo a un controllo.

Sembrava che i cambiamenti e le reinvenzioni che avevano spinto Agassi nel primo decennio sul circuito non riuscissero a fare presa. Continuava a guadagnare 14 milioni di dollari all’anno in sponsorizzazioni, a dimostrazione che, per quanto scolorita, l’immagine era davvero tutto. Nel 1998 aveva compiuto 28 anni. Solo tempo dopo avrebbe confidato che tutti quegli alti bassi, le fasi in cui il tennis non era una priorità, alla fine avevano preservato un po’ di carburante in più rispetto al tipico giocatore della sua età. Quando si era deciso finalmente a dedicarsi di nuovo allo sport senza distrazioni, aveva accettato di sottoporsi completamente al regime del preparatore Reyes. Se aveva galleggiato nei primi dieci anni a mezzo servizio, ora sparivano gli hamburger di McDonald’s, per riprendere forma, velocità e attenzione come mai prima.

Parigi val bene una messa

Se non avesse vinto però, a nulla sarebbe servito. E per poco non vinse. Al Roland Garros 1999, raggiunse la finale pur perdendo almeno un set in quattro delle sei partite, arrivando a due punti dalla sconfitta al secondo turno contro Arnaud Clement. C’è da dire che un infortunio alla spalla lo aveva fermato la settimana prima a Dusseldorf e quasi lo costrinse al ritiro anche a Parigi. In finale, per i primi due set aveva solo potuto stare a guardare Andrei Medvedev, numero 100 del mondo, che lo prendeva a pallate e si portava avanti 6-1 6-2. Nel terzo aveva iniziato a leggere il servizio dell’avversario e mettere in ordine un rovescio erratico. Dopo aver perso tutti i punti alla risposta sulla prima di Medvedev nel secondo set, ne aveva vinti più del 40% per il resto della partita.

Non vincere oggi sarebbe stato devastante” aveva detto alla fine della partita. Forse non sarebbe finita come dopo gli US Open 1995, ma è facile immaginare uno scenario in cui Medvedev non si scompone e la seconda celebrata parte della carriera di Agassi non decolla. Invece divenne un eroe. Il titolo a Parigi significava Grande Slam in carriera, solo il quinto tra gli uomini a esserci riuscito e solo il secondo, dopo Jimmy Connors, a vincere uno Slam su tre superfici. E il secondo decennio sarebbe stato ancora meglio del primo, aggiungendo altri quattro Slam fino all’ultimo nel 2003, per un totale di otto. Agli Australian Open 2000, ebbe di nuovo la grande soddisfazione di battere Sampras in semifinale, con uno scintillante tiebreak al quarto set che gira la partita a suo favore. La finale contro Yevgeny Kafelnikov a confronto fu pura formalità.

Il nuovo (davvero nuovo) Agassi sarebbe immediatamente riconoscibile dai tifosi delle mega stelle veterane di oggi. Oltre al sempre presente talento naturale, ha vinto con una combinazione di resistenza e acume tattico, raramente sbagliando mossa e caricandosi del ruolo di ambasciatore dello sport. Il carisma e la condotta fuori dal campo e le prestazioni in campo erano proprie di uno dei Fantastici Quattro prima che esistesse il concetto stesso dei Fantastici Quattro. Al momento di lasciare il testimone alla successiva generazione di campioni, lo fece con la grazia che era ormai il suo segno distintivo. Nella finale degli US Open 2005, Agassi, che aveva 35 anni, si trovò di fronte il nuovo re Roger Federer. Diede a quel giovane del filo da torcere e intrattenne la folla newyorkese, ma non ci furono sorprese, Federer vinse in quattro set. Dopo la partita, il figlio di tre anni Jaden gli chiese contro chi avesse giocato. La risposta del papà, un tizio con i capelli lunghi. ◼︎

The Tennis 128: No. 38, Andre Agassi

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