Pubblicato l’1 ottobre 2022 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati
A inizio anno, Jeff Sackmann si è imbarcato in un immenso progetto di elaborazione di una classifica dei 128 giocatori e giocatrici più forti di tutti i tempi, ponendosi l’obiettivo di terminare a dicembre 2022. Con una media di più di 2000 parole per singolo profilo, si tratta di una vera e propria enciclopedia di chi è chi nel tennis, dalla sua nascita a oggi. Per limiti di tempo e più evidenti limiti di talento, settesei.it propone una selezione delle figure maggiormente rappresentative per vicinanza d’epoca e notorietà, n.d.t.
Maria Sharapova [RUS]
Data di nascita: 19 aprile 1987
Carriera: 2003-2019
Gioco: destro (rovescio a due mani)
Massima classifica WTA: 1 (22 agosto 2005)
Massima valutazione Elo: 2327 (seconda nel 2008, è stata prima nel 2009 ma con una valutazione inferiore)
Slam in singolo: 5
Titoli WTA in singolo: 36
// Per me, la questione è tutta nel dritto mancino. Maria Sharapova giocava di destro ovviamente, ma era una mancina naturale e quando, inseguendo la pallina, non faceva in tempo a impostare il rovescio a due mani, prendeva la racchetta con la sinistra e si lanciava con un ultimo sforzo in un colpo improvvisato. Probabilmente aveva usato l’altra mano più di qualsiasi campionessa che non fosse ambidestra. Di solito si trattava di preghiere al cielo, tentativi disperati di riprendere il punto, ma c’era dell’altro. Colpiva passanti di sinistro, volée di sinistro e anche pallonetti di sinistro, vincendo pure dei punti (!) contro giocatrici del calibro di Justin Henin, Simona Halep e Daniela Hantuchova, oltre all’occasionale avversaria con un cognome che non iniziava per H.
Non era necessariamente un bello spettacolo. Anche se c’è abbondanza di video su YouTube di suoi colpi improbabili, la percentuale di vittoria dello scambio una volta tolta la mano destra dalla racchetta deve essere stata un numero singolo, e forse molto basso. Quando capitava, era spesso perché l’avversaria veniva distratta dalla reazione del pubblico e sbagliava un facile colpo di chiusura. Eppure, la fama e la gloria di Sharapova, o la bacheca di trofei vinti, non devono nulla all’abilità mancina. Però è parimenti impossibile pensare che potesse rinunciare al punto pur non arrivandoci con il rovescio a due mani. La maggior parte delle persone l’aveva conosciuta per la bellezza, per essere una milionaria che pubblicizzava prodotti di lusso, una giovane regina per cui si sprecavano paragoni fuori posto con Anna Kournikova. Sharapova in realtà voleva — per prima, seconda e terza cosa — solo vincere. Tutto il resto veniva dopo. Non aveva vinto grazie al dritto mancino, ma non l’avevano soprannominata Iron Maiden per nulla (o ragazza di ferro, presumibilmente in riferimento al meccanismo di tortura erroneamente attribuito al Medioevo ma inventato nel diciannovesimo secolo, n.d.t.). Era mossa da una consapevolezza granitica, rimasta costante dalla prima stagione da sedicenne fino ai molteplici infortuni degli ultimi anni sul circuito. La volontà di non far cadere neanche la più inutile delle palline era inseparabile dalla potenza dei colpi e dalla determinazione che l’avevano accompagnata lungo tutta la carriera al vertice del tennis femminile.
Non ci sarebbe voluto molto perché Sharapova finisse per giocare da mancina. A undici anni, già parte della Nick Bollettieri Academy, con il padre Yuri aveva cercato aiuto da Rick Macci, un altro allenatore famoso per indirizzare giovani talenti al professionismo. Macci aveva molte perplessità sul dritto di Sharapova, contratto e impacciato, e a fatica in grado di sostenere uno scambio da quel lato. Il rovescio invece, aiutato dalla mano sinistra dominante, aveva un’esecuzione decisamente di altro livello, già a tempo e sincronizzato, secondo le parole dello stesso allenatore. L’aveva poi vista colpire con il dritto mancino, affermando che è uno dei colpi più belli che avesse mai osservato, che affondava come il coltello nel burro ed era soffice come la seta. Che una futura promessa cambi mano dominante a undici anni è impensabile, ma Yuri non era disposto a lasciare nulla di intentato. Sapeva che i risultati juniores contavano poco e voleva che Sharapova fosse fortissima a diciotto anni, non a dodici. Se il dritto di destro andava abbandonato, era quello il momento di farlo. Padre e figlia erano pronti a trasferirsi da Macci e lavorare su un gioco da mancina. IMG, la società di management che finanziava la permanenza di Sharapova da Bollettieri, per trattenerla aveva però fatto leva su una combinazione di incentivi (più risorse!) e minacce (no wild card!). Da mancina, il rovescio non sarebbe stato così penetrante, quindi Bollettieri aveva continuato a farla giocare di destro. IMG aveva anche chiamato Robert Lansdorp, uno specialista dei colpi da fondo, per sistemare il dritto.
All fine, non era importato più di tanto che direzione avesse intrapreso. Il dritto non era perfetto, ma comunque efficace, e anche il rovescio più fluido le faceva vincere scambi. Per quanto un servizio mancino le avrebbe consentito di raccogliere più punti — pensiamo al gioco da fondo di Sharapova unito a un servizio come quello di Petra Kvitova — in ogni caso prime e seconde di destro erano sufficientemente potenti. Tanto strano a dirsi, ma le caratteristiche del pacchetto di colpi a disposizione di Sharapova sarebbero passati sempre in secondo piano rispetto alla sua perseveranza. Diceva Bollettieri: “Aveva una forza mentale incredibile, non avrebbe mai pensato di poter fallire”.
Gloria massima
Non c’era però molto tempo per pensare ad altro se non la gloria massima. Nel 2003, a sedici anni, era sorprendentemente arrivata al quarto turno a Wimbledon, per poi trionfare l’anno successivo. Non era solo la vittoria, ma il modo in cui aveva vinto. In semifinale, contro la testa di serie numero 5 Lindsay Davenport, aveva recuperato lo svantaggio del primo set prendendo il comando della partita nel tiebreak del secondo. Con che coraggio? Dei sette punti vinti in quel tiebreak, sei erano stati vincenti. Aveva detto Davenport: “Ero in pieno controllo, e me lo ha portato via”. In finale, Serena Williams, con due Wimbledon di fila in bacheca, non era nemmeno andata vicino a un tiebreak. Il punteggio di 6-1 6-4 era così a senso unico che sembrava quasi un cambio della guarda. Su Sports Illustrated, S.L. Price aveva scritto: “In 73 minuti di gioco, Sharapova strappa di dosso l’armatura che Williams si era costruita in questi anni da dominatrice, e immagini e suoni che l’accompagnano hanno quasi del soprannaturale: Williams che scivola nel momento chiave di uno scambio epico e atterra rimbalzando sul sedere o che, troppo scioccata da una risposta laser di Sharapova, grida per scaricare la frustrazione. E poi c’è di nuovo Williams, mai a corto di parole in una conferenza stampa, che dopo la partita di fronte a giornalisti dichiara di non avere idea di cosa sia successo”. Ma proprio Williams aveva fatto alla nuova campionessa il complimento migliore: “È un po’ come me, non si ferma di fronte a nulla ”. Martina Hingis l’aveva invece definita senza paura. Allenatori e agenti che avevano assistito alla crescita di Sharapova potevano credere che fosse maturata in anticipo, ma non c’era da sorprendersi: sapevano di avere per le mani una futura campionessa nell’esatto momento in cui l’avevano vista. Ora arrivava la ricompensa: fama, sponsorizzazioni e l’ascesa al numero 1, apparentemente senza ostacoli.
Sharapova era riuscita a trasformare in vittorie il suo talento iniziale, e in qualche modo era andata anche oltre. Aveva terminato il 2004 conquistando le Finali di stagione contro una seppur infortunata Williams. Pur non raggiungendo altre finali Slam nel 2005, buoni posizionamenti complessivi — tre semifinali e un quarto — oltre a tre tornei minori vinti le avevano garantito ad agosto il primo posto della classifica WTA. Gli sponsor avevano appreso con entusiasmo che il fascino slavo di Sharapova si accompagnava a una perfetta padronanza dell’inglese e una totale naturalezza di fronte alla telecamera, facendo di lei una multimilionaria prima ancora di aver vinto il secondo Slam. Dopo gli US Open 2006, era apparsa in una pubblicità Nike che in soli 60 secondi ne esaltava aspetto fisico e fuoco competitivo.
Portando una ventata d’aria fresca nel tennis femminile però, Sharapova aveva risvegliato il gigante dormiente di nome Williams. Nella semifinale degli Australian Open 2005, a qualche mese dalla sfida di Wimbledon, aveva vinto il primo set, andando a servire per la partita sul 5-4 nel secondo. Il doppio fallo sulla palla break aveva concesso il game a Williams che aveva chiuso il set 7-5. Nel terzo, Sharapova aveva strappato il servizio sul 3-3 e — servendo di nuovo per la vittoria — sprecato tre palle match, per poi buttare via altre tre occasioni per fare il break sul 6-6. Alla fine Williams aveva vinto con il punteggio di 2-6 7-5 8-6 e pareggiato a uno il bilancio negli scontri diretti. Nessuno avrebbe mai pensato che da li al ritiro di entrambe, Sharapova non avrebbe più vinto una partita delle altre 18 giocate, tra cui tre finali Slam e quella per l’oro Olimpico. Aveva trovato in Williams una sua eguale, e anche di più. Colpiva forte, e Williams colpiva ancora più forte. Serviva forte, però Williams possedeva il servizio più letale del circuito. Tutti esaltavano la sua determinazione, ma quando la testa di Williams era focalizzata sul tennis, la voglia di vincere non aveva paragoni. Messa alle strette, anche Williams avrebbe colpito la sua personale versione del dritto con la mano sinistra. Fortunatamente per Sharapova, la sua nemesi lasciava ogni tanto la possibilità di vincere qualche torneo. Agli US Open 2006, Sharapova era ritornata sul gradino più alto in modo così risoluto che era incredibile avesse potuto metterci tanto tempo. In sette partite, aveva perso un set, in semifinale contro Amelie Mauresmo, con un punteggio però di 6-0 4-6 6-0. Era stata imperiosa anche in finale, battendo Henin 6-4 6-4.
Una mucca sul ghiaccio?
Pur da appena diciannovenne, già alcune cose erano chiare. Primo, non sarebbe mai stata la giocatrice più popolare negli spogliatoi. Era altezzosa e, per quanto affascinante con gli sponsor, non sembrava interessarle farsi amicizie sul circuito. Secondo, non avrebbe smesso di grugnire. Nessun articolo su di lei poteva essere completo senza un tentativo di trascrizione (era EEEEEHHHHH UHHHhhhh!!!! o RHHEEE-AAAHHHH!?) e i giornalisti occasionalmente fomentavano la vicenda raccogliendo commenti malevoli di altre giocatrici. La risposta di Sharapova era sempre la stessa, cioè di concentrarsi sulla partita e basta. Terzo, sarebbe rimasto il paragone con Kournikova, fa nulla se fosse privo di senso. Vero, aveva vinto lo stesso numero di set contro Williams di quelli di Kournikova e, altrettanto vero, i soldi degli sponsor superavano di gran lunga quanto sembrava meritare dal rendimento in campo. Ma dopo un intero decennio da professionista, ancora riceveva domande che mettevano in dubbio le sue priorità. Nel 2012 aveva dichiarato, a quanto pare a un giornalista che non l’aveva mai vista dare battaglia al terzo set: “Per Per me non si tratta di fare spettacolo, è le mia carriera e la prendo molto seriamente”.
La professionalità delle ore passate in palestra e di quelle in campo ad affinare la tecnica si sarebbe rivelata un’arma a doppio taglio. Nel 2007 una borsite alla spalla destra le rallentava il servizio, rendendolo più erratico. La fluidità di movimento che l’aveva caratterizzata nell’adolescenza non sarebbe più tornata, per avendo acquisito un nuovo meccanismo di rilascio con il quale raggiungeva la stessa velocità di prima. La spalla l’aveva risparmiata agli Australian Open 2008, il suo terzo Slam vinto, qui con una progressione scintillante. La stagione si era aperta con 25 vittorie a fronte di una sconfitta, e tre titoli incamerati prima di uno strappo alla cuffia del rotatore, da cui l’intervento chirurgico e una forma non più uguale fino al 2011.
Sharapova non è mai stata la giocatrice dal talento più naturale, non era tra le più veloci e i suoi spostamenti più mirati all’efficacia del gioco che entusiasmanti. I problemi alla spalla avevano trasformato il servizio in una sequenza rabberciata e con il passare degli anni faceva sempre meno affidamento sulla dote e sempre più sullo sforzo. Nel 202 aveva detto: “Non importa quante volte sono caduta, mi sono sempre rialzata”, non proprio l’immagine per cui veniva pagata da Tiffany & Co. ma sicuramente una descrizione accurata. Sembra calzare a pennello quindi che la seconda parte della carriera producesse uno dei risultati più improbabili sulla terra, superficie che aveva sempre avuto difficoltà a gestire, arrivando a paragonarsi a ‘una mucca sul ghiaccio’. Nessuno ha mai avuto motivo di confonderla con Francesca Schiavone, ma con il tempo la stagione europea sulla terra era arrivata a darle le maggiori soddisfazioni dell’anno.
Questa statistica mi lascia di stucco: dividiamo la carriera negli anni prima dell’infortunio (2001-08) e in un analogo periodo nel decesso successivo (2011-18). Consideriamo poi il rendimento sul cemento e sulla terra, come mostrato nella tabella.
Superficie 2001-08 2011-18
Cemento 187-44 (81%) 149-47 (76%)
Terra 48-14 (77%) 93-16 (85%)
Se da un lato la ricostruzione del servizio le è costata qualche partita sul cemento, i risultati sulla terra sono migliorati di un margine più ampio. Sharapova ha vinto 11 delle 13 finali che ha disputato sul circuito maggiore, tra cui due Roland Garros e una mezza dozzina di vittorie contro le prime 10. L’unica che l’ha battuta per un titolo sulla terra è stata Williams, che è stata anche la sola ad avere una percentuale di vittorie sulla terra più alta tra il 2010 e il 2020. Alla vigilia della finale del Roland Garros 2012, l’appellativo di mucca sul ghiaccio era ormai poco più che autoironia. Sharapova aveva infatti battuto Victoria Azarenka in finale a Stoccarda e salvato una palla match contro Li Na agli Internazionali di Roma, sempre per il titolo. A Parigi Williams era uscita al primo turno, aprendo la strada alle altre. Sharapova aveva perso un set in tutto il torneo, concedendo solo cinque game a Sara Errani in finale. Sulla terra, meglio la determinazione (e una mostruosa capacità di colpire la pallina) che la scioltezza di spostamento, sempre. Aveva detto Mauresmo: “È così completamente presa dal voler vincere, che la sua forza è quella mentale”.
Quella vittoria l’aveva riportata in cima alla classifica: pur avendo mantenuto il numero 1 per un totale di 21 settimane tra il 2005 e il 2012, era riuscita a raggiungere la vetta in cinque diverse occasioni. Per altre tre stagioni era rimasta tra le prime 5, raccogliendo un altro Roland Garros nel 2014, con l’80% di vittorie nelle partite giocate in quel periodo. Le mie valutazioni Elo sono ancora più positive perché, sulla base di quella formula, finisce il 2013, 2014 e 2015 al secondo posto, dietro, ovviamente, a Williams.
Dissolvenza
Quasi certamente conoscete, e vi siete fatti un’opinione, il motivo dell’uscita dal tennis di Sharapova nel 2016. Dopo essere risultata positiva al Meldonium, farmaco presente nella lista delle sostanze proibite della WADA, aveva ricevuto una squalifica di due anni che, dopo il canonico doppio passo di diniego e appello, era stata ridotta a quindici mesi. La presenza mediatica di Sharapova aveva sempre trasceso lo sport e, al rientro, il suo gioco sembrava un aspetto ancillare. Tranne che per lei non era mai stato così: in campo, di fronte a un pubblico pagante, avrebbe dato l’anima tanto quanto quindici anni prima, alla sua iniziale apparizione a Wimbledon. Halep può testimoniarlo, e con lei e tutti i suoi tifosi più accaniti. Il quinto torneo dopo la squalifica per Sharapova erano gli US Open in cui, fuori dalle teste di serie, aveva trovato al primo turno Halep, la testa di serie numero 2. La partita era stata bruttina, con la ruggine di Sharapova ancora evidente a trascinare Halep a quel livello. Dopo quasi tre ore, e senza parlare degli 86 errori non forzati complessivi, Sharapova era riuscita a vincere alla distanza. Il quarto turno raggiunto era un buon indicatore di quanto potesse fare anche dopo i trent’anni. Era in grado di battere occasionalmente una delle prime 10 ma, a eccezione di un piccolo torneo a Tianjin nel 2017, non sarebbe più riuscita a dominare l’intero tabellone. Il cerchio si era chiuso agli US Open 2019, ancora una volta contro una delle prime teste di serie, a questo giro Williams, che aveva vinto facilmente 6-1 6-1.
Il rientro in scena si era dissolto, ma aveva avuto il merito di introdurre una nuova generazione di giocatrici alla testardaggine di Sharapova. In un’intervista del 2018, Nick Bollettieri continuava a tesserne le lodi. Pur fuori dalle prime 40, per Bollettieri non si doveva mai scommettere contro di lei. Nessuna aveva seguito quel monito meglio di Sharapova stessa. ◼︎