Pubblicato l’1 febbraio 2019 su TennisAbstract – Traduzione di Edoardo Salvati
// Il cronometro al servizio per i 25 secondi tra un punto e l’altro è diventato in fretta una presenza stabile in entrambi i circuiti maggiori. Dopo una fase sperimentale, ha debuttato nei tornei di preparazione agli US Open 2018 e da allora è stato ampiamente adottato. Sia gli US Open che gli Australian Open ne hanno fatto uso, e la WTA lo introdurrà negli eventi Premier del 2019, con l’idea di estenderlo poi a tutti i tornei.
Per come l’ho intesa, l’obiettivo del cronometro al servizio è duplice. Il primo, limitare la durata delle partite costringendo i giocatori a un tempo prefissato tra un punto e l’altro. Il secondo, applicare la regola in modo equo.
Dirigenti di tennis e di emittenti televisive sono sempre alla ricerca di accorgimenti per rendere le partite più corte (o, quantomeno, di durata più prevedibile), quindi il primo obiettivo ha una portata più ampia.
Il secondo è più specifico. È risaputo che diversi dei giocatori che impiegano molto tempo tra un punto e l’altro sono le grandi stelle, e si riteneva che l’arbitro esitasse a penalizzarli. In teoria, un cronometro identico per tutti dovrebbe rendere l’applicazione più trasparente, assicurando correttezza a prescindere dallo status.
È difficile valutare il successo del secondo obiettivo. Per certi aspetti, sembra che stia funzionando, vista l’assenza di lamentele da parte dei giocatori. Rispetto al primo obiettivo, è più semplice fare una valutazione degli sviluppi, aspetto che ho analizzato già tre volte, appena dopo il Canada Masters 2018, dopo il Cincinnati Masters 2018 e al termine degli US Open 2018.
Tre eventi separati, medesima conclusione: il cronometro al servizio non ha velocizzato il gioco e, in molti casi, è coinciso con partite più lente.
Come è andata in Australia
Il metodo più immediato per misurare la velocità di un partita è di usare la durata ufficiale e il numero di punti giocati e calcolare i secondi per ogni punto. È un sistema un po’ approssimativo, visto che la durata ufficiale non ricomprende solo il tempo effettivo di gioco ma anche le pause tra i punti, i cambi di campo, le interruzioni per temperature eccessive o per la richiesta di assistenza medica, la moviola istantanea chiamata dai giocatori ed eventuali brevi sospensioni per pioggia. Si tratta quindi di un dato imperfetto, anche se il i cambi di campo od occorrenze simili sono ben definiti, rendendo possibile il paragone.
La tabella mostra i secondi medi per punto per gli uomini e le donne agli Australian open 2018 e 2019, a indicazione della cadenza di gioco prima e dopo l’introduzione del cronometro al servizio.
Anno Sec/Pt U Sec/Pt D
2018 40.2 40.4
2019 41.0 40.3
Non siamo esattamente di fronte a una pubblicità progresso per il cronometro al servizio. In media, le partite sono state più lente nel 2019 rispetto al 2018. D’altro canto però, è un risultato migliore di quanto verificatosi agli US Open 2018, che sono stati in media 2.5 secondi più lenti del 2017, edizione senza cronometro.
Aumenta la precisione, resta la lentezza
Vale la pena ripetere che è un metodo poco raffinato per misurare la velocità di una partita. Per la maggior parte dei tornei però è il massimo ottenibile in assenza di accesso ai dati che l’ATP e (presumibilmente) la WTA possiedono in merito. Negli Slam c’è possibilità per un maggiore dettaglio.
Fino al 2017, per gli US Open e gli Australian Open mi riferisco ai dati di IBM Slamtracker. Per gli Australian Open, la collaborazione con IBM è terminata, ma dati punto per punto sono comunque disponibili sul sito.
Con dati più accurati, si possono ottenere stime più precise della frequenza con cui i giocatori sono andati oltre il limite dei 25 secondi, prima e dopo l’adozione del cronometro al servizio (il limite precedente era di 20 secondi, ma sono convinto che nessuna delle violazioni sia stata assegnata prima che fossero trascorsi almeno 25 o più secondi).
Dopo gli US Open 2018, ho trovato un aumento considerevole del numero di volte in cui i giocatori sono andati oltre i 25 secondi, così come le volte in cui sono andati oltre i 30 secondi. Per chi è interessato, l’articolo contiene approfondimenti metodologici al riguardo.
Di nuovo, gli Australian Open fanno meglio degli US Open, ma non significa necessariamente che il cronometro è efficace, solo che non rallenta le partite in modo così incisivo. La tabella mostra un confronto di violazione temporale prima e dopo l’introduzione del cronometro, per il 2017 e il 2019 (non ho raccolto i dati per gli Australian Open 2018).
Tempo 2017 2019 Delta (%)
sotto 20s 77.6% 75.9% -2.2%
sopra 25s 91.6% 91.8% 0.2%
sopra 25s 8.4% 8.2% -1.7%
sopra 30s 2.8% 2.1% -25.2%
L’ultima riga della tabella è la prima vera indicazione del fatto che il cronometro al servizio sta funzionando. Rispetto a due anni fa, si superano i 30 secondi tra un punto e l’altro molto meno frequentemente. Di converso, se si considerano i 25 secondi non c’è quasi differenza. Altro elemento negativo, l’apparente miglioramento dato dal valore di 2.1% per l’intervallo sopra i 30 secondi è considerevolmente peggiore di quanto visto agli US Open 2018, in cui si era solo sullo 0.8%. Agli Australian Open, il cronometro ha eliminato alcune delle violazioni più evidenti, ma ne rimangono molte.
Servono medici, non medicine
Il problema principale continua a risiedere nel modo in cui si usa il cronometro. Il conteggio infatti prende il via alla chiamata del punteggio che, generalmente, avviene quando il rumore di fondo nello stadio si è esaurito. Per questo, dopo scambi lunghi o emozionanti – cioè proprio quelli in cui i giocatori prendono più tempo per rifiatare prima di servire – il limite temporale è di fatto allungato.
Ma non c’è ragione perché sia così. L’arbitro dovrebbe far partire il cronometro quando il punto è terminato e, se gli spettatori sono ancora in visibilio dopo 20 o 25 secondi, comportarsi di conseguenza. Alcuni giocatori però hanno già l’abitudine strategica di sfruttare tutto il tempo concesso. Più l’arbitro aspetta prima di far ripartire il cronometro, più dobbiamo attendere la ripresa del gioco.
La mia critica principale all’avvio ritardato del cronometro però è di diverso tipo. Ovviamente vorrei vedere le partite procedere con più rapidità. Ma, come per quasi tutti gli aspetti del regolamento, a darmi fastidio è l’estensione del tempo limite più favorevole per le mega stelle che per i giocatori di rincalzo. In un campo come la Rod Laver Arena a Melbourne, dopo ogni punti giocato si assiste a una anche modesta ovazione, specialmente in presenza di grandi nomi come Roger Federer o Rafael Nadal o Serena Williams.
Lontano dai riflettori sul campo 20, Johanna Larsson può pensare di ottenere un applauso appena accennato anche dopo uno scambio da sfinimento. Più è anonimo il giocatore, minore il tempo di recupero. E dopo un paio di partite, la differenza si fa sentire. Una regola introdotta per aumentare equità e trasparenza non dovrebbe andare a svantaggio degli sconosciuti. In questo caso però negli Slam sembra succedere proprio così.
Prima o poi smetterò di commentare il cronometro al servizio. Finché i due circuiti promuoveranno un’innovazione che fallisce nel proprio dichiarato intento, continuerò a valutarne i risultati. Magari fra qualche anno si arriverà finalmente ad applicarla nel modo giusto. ◼︎