Pubblicato il 27 settembre 2015 su Rivista Undici
La prima donna ad aver arbitrato una finale maschile degli US Open. Il tennis ha una nuova stella?
// L’Arthur Ashe Stadium nel distretto del Queens a New York è il più grande stadio di tennis del mondo. Inondato dai riflettori della copertura mobile – il cui completamento è previsto per il prossimo anno – non è certamente il luogo ideale per l’osservazione astronomica. I circa 23 mila spettatori della finale di singolare maschile degli US Open 2015 devono comunque aver assistito alla nascita di una nuova costellazione, formata da tre stelle solo apparentemente vicine tra loro.
Due erano già note come tra le più splendenti del firmamento tennistico di sempre: Roger Federer e Novak Djokovic. La terza, Eva Asderaki-Moore, l’arbitro della partita, è esplosa quella sera, quasi nel bisogno di arginare l’entropia generata – sul campo – da una continua violazione delle leggi della fisica con la superiore eleganza del genere femminile.
Il tennis è uno sport basato sul rispetto dell’avversario, nella concretezza di gesti che vanno oltre la teorizzazione in regole comune a tutte le discipline: scusarsi per aver tratto beneficio da un tocco favorevole del nastro o per aver sbagliato il lancio durante il servizio; evitare qualsiasi comportamento che infastidisca la concentrazione altrui; congratularsi per un colpo considerato di particolare bravura.
Non tutti i tennisti hanno posseduto in passato una tale rettitudine e alcuni hanno anzi utilizzato il contesto di fair play di una partita per acquisire un vantaggio psicologico determinante. L’esempio più famoso e reiterato è quello di John McEnroe, capace anche di farsi espellere per proteste durante gli Australian Open del 1990. Ma, generalmente, è uno sport corretto e se non fosse perché nella versione moderna il risultato è molto spesso solo una questione di millimetri, la figura dell’arbitro, o giudice di sedia (e dei suoi collaboratori, i giudici di linea), sarebbe di puro contorno.
Come un direttore d’orchestra
Così non è stato però durante l’atto conclusivo della stagione del Grande Slam, cioè dei quattro tornei più importanti nel tennis. Nonostante l’assenza di situazioni controverse, Eva ha esercitato il suo ruolo di autorità ultima con la stessa influenza di un direttore d’orchestra il cui primo e secondo violino hanno raccolto, nel corso della loro carriera, 27 titoli dello Slam (record per qualsiasi finale della storia) e premi per complessivi 180 milioni di dollari. Due giocatori, quindi, dal peso specifico di un certo rilievo.
La prontezza e la correttezza delle sue chiamate, alcune avvenute anche in circostanze di punteggio “caldo” e confermate dal sistema di moviola istantanea Hawk-Eye, hanno suscitato il frenetico responso del pianeta Twitter, con esortazioni ad assegnare a lei il titolo di miglior giocatore dell’incontro, vinto poi da Djokovic in 4 set. La sua voce ferma ha tenuto a bada un pubblico dichiaratamente schierato, notoriamente rumoroso e apertamente incurante dell’etichetta tennistica, senza mai perdere la compostezza e lo stile definiti da un volto simmetrico e pulito, due profondi occhi azzurri di indubbia visione straordinaria e una lunga coda di capelli biondi sempre in perfetto ordine.
Il semplice braccio alzato di Eva è bastato a far calare il silenzio totale che i tennisti esigono prima di iniziare qualsiasi scambio. Guardando in diretta la partita, ha impressionato la sua volontà di interpretare la funzione di giudice di sedia in modo attivo, senza però peccare di protagonismo come a volte succede ad alcuni colleghi uomini. Sebbene difficilmente una singola decisione arbitrale nel tennis – a differenza del calcio – sia in grado di alterare il risultato finale, il palcoscenico più mediatico che lo sport conosca e la presenza di mostri sacri a contendersi il titolo rappresentavano una combinazione moltiplicatoria del rapporto tra chiamata sbagliata e conseguenza dannosa, tale da rendere la conseguenza più dannosa di quanto in realtà potesse essere.
Nonostante questo rischio, Eva non ha esitato a fare chiamate secondo il suo giudizio, invertendo la tendenza diffusasi recentemente a rifugiarsi nell’ausilio della tecnologia come decisore finale nell’assegnazione di un determinato punto. E, superfluo a dirsi, manifestando un equilibrio interiore che a soli 33 anni non è scontato possedere.
Ad appena vent’anni è già arbitro internazionale
Quello degli arbitri di tennis è un gruppo sul quale si trovano poche informazioni. L’esposizione televisiva legata all’aumento di popolarità con le imprese di Federer, Djokovic, Rafael Nadal, Andy Murray, Stanislas Wawrinka, ha permesso agli appassionati di riconoscere i giudici di sedia prima che il nome appaia sullo schermo. Nessuno di loro però ha, ad esempio, una pagina Wikipedia dedicata. Come conferma Jeff Sackmann, statistico di tennis, non è nemmeno possibile sapere il record di vittorie/sconfitte di ciascun arbitro rispetto ai tennisti le cui partite ha arbitrato.
Eva è di origine greca e probabilmente rappresenta la massima espressione del tennis ellenico, considerando che il primo giocatore e la prima giocatrice sono rispettivamente 698 e 185 nelle classifiche ATP e WTA. Prima di iniziare la carriera di arbitro, è stata una buona giocatrice junior. Nel 1997, il suo club organizza un torneo internazionale e la chiama come giudice di linea. Un seminario della Federazione Greca le fa capire che quella è la sua strada e, appena ventenne, diventa arbitro internazionale, avendo acquisito sicurezza anche nel tennis dilettantistico, in cui non si è supportati dai giudici di linea. Il suo primo torneo WTA è del 2001 e nel 2005 ha già ottenuto il Gold Badge, la qualifica di più alto livello assegnata dalla Federazione Internazionale agli arbitri che poi presiedono le partite dei tornei dello Slam e del circuito professionistico maschile e femminile. Solamente sei donne al mondo in attività sono Gold Badge, a testimonianza di un’élite ristretta e cautamente selezionata.
La prima donna di sempre per una finale maschile a New York
Eva arbitra diverse semifinali degli Slam fino ad arrivare alla finale femminile degli US Open 2011, le finali WTA 2011, il torneo olimpico del 2012 e la finale femminile di Wimbledon 2013. Naturalmente, la sua crescita incontra passaggi in cui la tensione nervosa è messa a dura prova. Proprio nella finale femminile degli US Open 2011, è lei a penalizzare Serena Williams per aver disturbato verbalmente l’avversaria durante uno scambio. Nei successivi due cambi di campo, la Williams, che perderà quel match, scarica la sua frustrazione definendola ‘brutta dentro’ e intimandole di ‘non provare nemmeno a guardarla’. Agli Australian Open del 2014, Eva penalizza Nadal per aver utilizzato troppo tempo per la ripresa del gioco tra un punto e l’altro, abitudine dello spagnolo praticamente mai sanzionata: per Eva la necessità di garantire un arbitraggio imparziale prescinde dall’importanza dei giocatori.
Con una prestazione impeccabile nella notte di New York, Eva si guadagna l’onore di essere la prima donna di sempre ad aver arbitrato una finale maschile degli US Open, un riconoscimento per il quale non si fa nemmeno intervistare, perché per lei parla il suo operato.
Forse è arrivato il momento di dare un nome alla costellazione di cui fa parte. ◼︎